Lo scorso sabato 19 marzo sono stato a La Spezia, all’Open Day, organizzato dalla Fondazione FS, presso il Deposito Officine Rotabili Storici di La Spezia-Migliarina, in compagnia di mio cugino, anch’egli grande appassionato – come me – di ferrovie, sia reali, sia in miniatura.
In questa officina, oltre a
recuperare rotabili del passato, provvedono a dotare le locomotive storiche
restaurate degli apparati di sicurezza, per consentirne l’uso sulla rete nazionale.
Queste macchine hanno un grande fascino. Lo hanno non solo le vaporiere, ma anche le locomotive elettriche come la E626 e la E428, costruite attorno al 1936-1938, in pieno periodo di sanzioni a carico dell’Italia a causa della guerra in Etiopia, con solo materiale italiano, da aziende prestigiose quali l’Ansaldo, la Breda, la O.M. Quelle scampate alle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale hanno contribuito a rimettere in moto l’Italia dopo il conflitto, collegando sulla rete da poco ricostruita le città da nord a sud.
Appartengo ad una generazione che
ha conosciuto il viaggio in treno, quando viaggiare con questo mezzo si poteva
ancora considerare un’avventura. Oggi i rotabili sono dotati di ogni confort,
velocissimi, relativamente silenziosi, ben climatizzati, ma un po’ asettici.
Tra gli anni ’60 e ’70 il treno
era un mezzo assai utilizzato, specie per il rientro estivo di quella massa di
lavoratori meridionali, saliti al nord sempre con il treno e le famose valige
di cartone in cerca di fortuna e che approfittavano delle ferie agostane per
rientrare al paese d’origine, per rivedere i propri cari, per tornare a
respirare l’aria natia. Anch’io, bambino, ero tra questi.
Con i miei genitori si partiva
dalla stazione Centrale di Milano di sera, per recarci nella nostra terra d’origine:
la Puglia. Ancora non esisteva l’abitudine di prenotare i posti e i treni
venivano presi letteralmente d’assalto quando, ancora in movimento, si
avvicinavano al marciapiede, per assicurarsi i posti a sedere. Gente –
sciagurati, incoscienti, un’umanità disperata e ignorante – che si infilava perfino
dai finestrini, rischiando di cadere ed essere stritolati dalle ruote della
carrozza. Più volte non riuscivamo a salire sul treno che avevamo pensato di
prendere, per il troppo affollamento, per ripiegare su uno successivo, magari
straordinario (ovvero aggiunto dalla Ferrovie dello Stato e fuori dall’orario
ufficiale), alle due o alle tre di notte. Il viaggio, normalmente, durava circa
12 ore, ma una volta abbiamo preso un treno che ha impiegato ben 17 ore: era
pieno all’inverosimile, scompartimenti tutti occupati, corridoi pieni, persone
stese sulle mensole portabagagli e perfino gente che si era “accomodata” con
valigie e scatole nei bagni.
Ricordo i panini che preparava
mia madre per la “cena” sul treno e il thermos con latte e caffè per la
colazione del mattino successivo. Un’avventura, insomma. Ma la magia di abbassare
il finestrino e respirare l’aria notturna mentre il convoglio era fermo a Bologna
Centrale o la vista del mare alle prime luci dell’alba, all’altezza di Vasto,
erano impagabili.
In francese ferrovie si dice “chemin de fer”, letteralmente cammino di ferro. Niente di più appropriato, per una delle principali conquiste di civiltà della nostra specie.
Che ricordi! Da bambino con mamma, babbo e nonna si partiva a luglio approfittando dei due mesi liberi da scuola per i miei che erano insegnanti elementari e si tornava il 31 agosto dai luoghi di villegiatura montana. Il treno era un'avventura fascinosa. E una volta arruolato non si contano le ore e i giorni passati a bordo in missione isolata o buttato con la mia squadra anche sui carri merci per trasporto munizioni da Pistoia a Poggiorsini. Ricordi indelebili alla ricerca di uno spogliatoio per personale viaggiante dove la doccia calda era il Paradiso e la mensa del dopolavoro la salvezza...
RispondiEliminaGrazie Mariano per il tuo contributo di ricordi.
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