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Come un naufrago, inserirò in una bottiglia, ovvero questo Blog, i miei messaggi
che affiderò al vasto mare del WEB, affinchè qualche navigatore li possa
scorgere tra i flutti, così da leggerne il contenuto e scoprire la mia passione
letteraria.

venerdì 1 aprile 2011

"Il bambino che sognava i cavalli" di Pino Nazio


Esiste un limite che non si deve superare?
Sì, c’è un limite a tutto.
Esiste un limite anche al male?
Sì, ma qualcuno ha superato quel limite.

Giuseppe Di Matteo era un ragazzino di tredici anni, un bambino come tanti altri, che andava a scuola, giocava con i suoi amici e aveva la passione per i cavalli.

La sua sembrava una vita tranquilla, nell’ambito di una famiglia all’apparenze normale: il fratellino Nicola, la mamma Franca, il papà Santino e il nonno, di cui portava il nome, detto zu Piddu.

Ma questa famiglia viveva ad Altofonte, in provincia di Palermo, in una zona dove gli “uomini d’onore” facevano da padroni.

Uomini d’onore lo erano anche il nonno e il padre.

Santino Di Matteo era un “soldato” dei corleonesi, la famigerata famiglia con a capo Salvatore Riina, detto Totò u Curtu.

I corleonesi erano una famiglia vincente, che aveva scalzato e spesso eliminato i vecchi capimafia, fino a diventare la predominante, con Riina nel ruolo di Capo dei Capi di Cosa Nostra.

Tra le varie azioni criminali messe a segno dai corleonesi, c’è l’attentattuni ovvero l’attentato al giudice Giovanni Falcone, avvenuto a Capaci il 23 maggio 1992.

A quella strage avevano partecipato sia Santino Di Matteo, detto Mezzanasca, sia Giovanni Brusca, detto Scannacristiani o u Verru.

L’attentato segnò però una svolta nella storia della mafia siciliana, una svolta che per i Siciliani onesti divenne epocale, per Santino risolutiva, per suo figlio Giuseppe tragica e che segnò l’inizio della caduta dei corleonesi.

Santino De Matteo dopo quell’attentato, cui aveva sì contribuito ad organizzarlo, ma dal quale venne all’ultimo tenuto fuori per esplicita volontà di Giovanni Brusca, iniziò a pensare che immani traggedie si sarebbero abbattute sulla sua vita e su quella dei suoi compari.

Iniziò così un lento percorso che lo portò a diventare un pentito di mafia. Accusò se stesso di una decina di omicidi commessi e fece i nomi dei suoi complici e dei mandanti.

Confidò anche quel che sapeva dell’attentato a Giovanni Falcone, contribuendo ad assestare un duro colpo ai corleonesi, in guerra aperta con lo Stato.

Quando Giovanni Brusca e gli altri capimafia vennero a sapere del tradimento di Mezzanasca, cercarono un sistema per farlo tacere.

Il sistema che trovarono consisteva nel rapimento del figlio Giuseppe, così da indurre Santino a ritrattare.

E così fecero, strappando un bambino di tredici anni all’affetto dei suoi cari, alla spensieratezza della sua infanzia ormai prossima all’adolescenza, ai suoi amici e compagni di scuola, al suo adorato cavallo.

Le regole non scritte degli uomini d’onore, da sempre sancivano che le donne e i bambini non dovevano essere toccati.

Già c’erano state eccezioni per le donne. Scannacristiani inaugurò l’eccezione per i bambini.

Fin dall’inizio Brusca sapeva dentro di sé che non avrebbe potuto più liberare il bambino, anche se il padre avesse ritrattato, ma allontanava questa certezza, anelando una chissà quale improbabile alternativa.

Giuseppe Di Matteo fu tenuto in ostaggio per settecentosettantanove giorni, aspettando invano una ritrattazione del padre, che non avvenne mai.

Man mano che lo Stato, finalmente vincente su Cosa Nostra, smantellava l’organizzazione criminale, anche grazie alle rivelazioni dei pentiti - Santino De Matteo compreso - le cui fila aumentavano di giorno in giorno, Giovanni Brusca si sentiva sempre più in pericolo, braccato e con l’ingombrante fardello del suo prigioniero, che si consumava nei vari luridi nascondigli in cui veniva tenuto.

Un fardello che ad un certo punto divenne troppo pesante.

Giovanni Brusca sbottò ai suoi picciotti: «Ma vaffanculo! Niscimmuninne, allibertati di lu cagnuleddu.»

La sentenza era stata pronunciata. Lu cagnuleddu, che non era certo un vezzeggiativo, bensì un dispregiativo, doveva essere eliminato.

La sentenza fu eseguita da Vincenzo Chiodo, l’ultimo carceriere di Giuseppe, da poco tempo reclutato dalla mafia, alla presenza di Enzo Brusca, fratello di Scannacrisrtiani e di Giuseppe Monticciolo, uno sconosciuto per gli inquirenti, ma deciso a farsi strada nella malavita organizzata.

Giuseppe De Matteo, ridotto ad una larva umana di trenta chili, venne strangolato con una corda e il suo povero corpo sciolto nell’acido.

Era l’11 gennaio del 1996.

I suoi aguzzini e il mandante di quell’orribile delitto vennero arrestati.

Poi Giovanni Brusca, Scannacristiani, u Verru, iniziò a collaborare con la giustizia. I corleonesi erano stati finalmente sgominati dallo Stato.

Ma questa, è un’altra storia.





Pino Nazio, l’autore de “Il bambino che sognava i cavalli”, ha raccontato questa storia vera, in forma di romanzo, a seguito di un incontro con Santino De Matteo.

I personaggi della vicenda, le situazioni, gli avvenimenti sono veri e i riferimenti all’oggettività dei fatti per nulla casuali.

Solo i dialoghi, i pensieri dei protagonisti, le loro emozioni e sentimenti, le reazioni e gli stati d’animo sono fantasia, seppure parallela alla realtà.

L’autore narra l’evolversi della drammatica vicenda con sapiente maestria, tanto da proiettare il lettore all’interno della storia, quasi a “vedere” i protagonisti muoversi sulle varie scene della tragedia.

È un libro coinvolgente, dal punto di vista emozionale, specie per chi ricorda la vicenda, ben scritto nella forma e nella sostanza.

Il romanzo-cronaca finisce con una speranza, col nonno di Giuseppe che vede nel nipote rimasto, Nicola, fratello della vittima, la cesura delle sua famiglia con Cosa Nostra, poiché Nicola, dopo il trauma vissuto per quanto era accaduto a Giuseppe, aveva scelto la strada della normalità, della legalità, dell’onestà.

L’auspicio è di vedere un giorno – speriamo quanto prima possibile – l’Italia intera scrollarsi da dosso l’infame fardello che ne limita le potenzialità, opprime intere regioni, mina lo Stato, annichilisce la Nazione.

Quando così sarà, il sacrificio di Giuseppe De Matteo e di tutti gli altri 900 martiri della criminalità organizzata, non sarà stato invano.


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